Mi capita frequentemente di incontrare insegnanti di tutti gli ordini scolastici e di ogni disciplina. Tra questi ci sono anche quelli degli istituti alberghieri e, parlando qui di cibo, ci soffermiamo su questi e su due episodi che mi sono capitati di recente.
Di insegnati se ne trovano di tutti i tipi è logico. Bravi e meno bravi, alcuni entusiasti e altri stanchi, molti legati ad una didattica fatta di nozioni e di programmi (che è più facile) e pochi che s’impegnai a trasmettere competenze e curiosità.
Insomma, come in tutte le cose della vita, ci sono persone più o meno adeguate fino a limiti estremi di completa inadeguatezza al ruolo e alla funzione in questo caso di insegnate.
Quelli che però mi preoccupano di più sono i “tradizionalisti per comodità” ovvero quelli che bollano ogni devianza dalla tradizione artusiana e materna come cucina da poco o non cucina. Al limite elogiano la Nouvelle Couisine per il ruolo di alleggerimento dei piatti e nulla più. Ma non l’hanno mai provata come non hanno mai provato nulla che fosse dissimile dai sapori della nonna.
Il primo episodio: assisto ad una lezione fatta ad aspiranti cuochi da un docente molto giovane che traccia una breve, e fatta abbastanza bene, storia dell’utilizzo degli additivi nell’alimentazione. L’obiettivo era quello di spiegare ai ragazzi come si legge un’etichetta e cosa vogliono dire le cose scritte.
Una ragazza chiede cosa siano Agar Agar e come fanno certi chef a fare “con queste cose chimiche” quelle palline trasparenti piene di cose liquide (intendeva la sferificazione).
La risposta ricevuta, da parte del docente, è stata che sono tutte cose fatte da “questo chef spagnolo”, che quella “non è cucina” e che sono veleni; “la chiamano cucina molecolare ma non è cucina è chimica”. Ha aggiunto poi che ci sono ristoranti in Italia dove copiano “quello chef spagnolo; per esempio uno a Modena, che ne parlano tanto, e poi altri” tagliando corto e riferendo sicuro che “poi non sanno fare la pasta all’uovo o il sugo”.
La ragazza ha chiesto se lui aveva provato quella cucina e lui ha risposto che mai avrebbe messo piede in un posto del genere “che poi ti chiedono cento e più euro e ti alzi con la fame. Vuoi mettere un bel piatto di ravioli fatti a mano col sugo quello vero?”.
Io taccio su questa marea di luoghi comuni e sulle modalità da “insegnate dell’impero” di questo appena trentenne, non potrei fare altrimenti.
Secondo episodio: qualche sera dopo parlo con un collega dello stesso insegnate e ci confrontiamo sulle difficoltà dell’insegnamento, sulle esperienze e sui gusti e lui mi chiede di vedere le foto che ho scattato hai piatti nei ristoranti dove sono stato e raccontargli cosa erano, come mi ero trovato col cibo e con il servizio.
Sfogliamo gli album che ho sul portatile e lui è curioso e fa domande. Un’oretta dopo finiamo e lui mi dice “Come si fa?” ed io “A fare cosa?” “A spendere per quelle cose!” e sospira ma percepisco che quel sospiro non è tanto dovuto alla sua domanda, ad un dissenso rispetto a quelle cucine, quanto alla curiosità mai soddisfatta e che probabilmente mai troverà soddisfazione.
Ma se la curiosità ed il desiderio non spingono abbastanza bisogna averne la possibilità. Proprio ieri sera mi è venuto in mente che qualche anno fa, almeno un decennio, i grandi ristoranti offrivano ai giovani sotto ai venticinque anni – mi pare nelle sere infrasettimanali – cene a prezzi agevolati. Mi pare che da qualche parte in rete ci sia un’intervista a Pierangelini che racconta di due giovani, e tanti altri, arrivati al Gambero Rosso da molto lontano col treno proprio in quell’occasione e che sarebbero ripartiti dopo il pasto.
Non sarebbe il caso di farlo anche con gli insegnati degli istituti alberghieri e dar loro modo di confrontarsi con quanto c’è di nuovo e di buono?
Io, maledizione, non ne godrei non essendo un insegnate.